Verde 36

L’eco mi dà la dimensione del vuoto che ho attorno e che tento di ignorare, senza grossi risultati. La accarezzo, sussurrandole qualche parola dolce, poi mi tolgo giacca e scarpe. La casa odora di gelsomino e vaniglia: Anna, la domestica, ha pulito questa stessa mattina, come ogni venerdì. Accendo le candele che stanno sul camino e mi butto a peso morto sul divano. La mia mole provoca un tonfo sordo. Mi distendo con la testa sul cuscino di velluto che le mie colleghe mi hanno regalato per il mio ultimo compleanno. Io che odio i compleanni, che odio i regali e sorrido sempre quando me ne porgono uno. Perché non so essere sincera, neppure con me stessa.

La mia casa è incastrata perfettamente al centro della città, luogo carico di storia, turisti, arte sfacciata che mi uccide piano piano, con le sue voci modaiole e invadenti. Per starle dietro e non farmi sopraffare dalla sua grandezza, la batto sul tempo, cercando di essere sempre un passo avanti. Frequento i teatri, i musei, le gallerie d'arte, le persone più facoltose e per farlo, mi travesto da donna tutta di un pezzo. Ho un armadio pieno zeppo di scarpe, di ogni colore e forma, esclusivamente con il tacco. Sono piccola e tonda; le ballerine mi farebbero assomigliare a una palla con le gambe. Stabilizzare il mio peso su un tacco dieci non è impresa da poco, ma l’allenamento a qualcosa serve: sono capace di andare spedita come se ai piedi avessi scarpe da ginnastica. Guadagno un sacco di soldi, specie da quando mi hanno promossa capo redattrice e di tutti questi soldi alle volte non so che farmene. So che sono ingiusta e ignobile, eppure non riesco a pensare ai poveracci che dormono all’aperto con un cartone addosso.

C’è poco da fare, i soldi mi consumano.

Più li spendo e più mi svuoto, ma non le tasche, mi svuoto di quello che sono, mi tramuto in un contenitore da riempire con vestiti costosi, gioielli che non indosso mai, scarpe improponibili, borse degli stilisti più famosi. Parto per il centro commerciale sempre con entusiasmo, gli occhi già pieni di vetrine e il cervello resettato per calcolare le percentuali di sconto. Acquisto, striscio la carta, travolta da un delirio di potenza incontrollabile. Torno a casa che ancora gli occhi brillano, ma di una luce destinata a consumarsi e ripiegarsi su se stessa quando riapro gli armadi e constato che non entra più neppure uno spillo. «Dove la ficco tutta questa roba adesso?». Ogni volta la stessa domanda, ogni volta la solita risposta: «Per un anno almeno, non compro più nulla.» Ma è l'ennesima bugia, una delle tante che mi dico.

Ho ereditato la casa da mia zia Evelina, ma non avrei dovuto cedere alle lusinghe dei metri quadri perché adesso ne sento il peso ogni volta che attraverso queste stanze immense dove il vuoto diventa consistente e nel quale m’incastro senza saperne uscire. Eppure chi entra nella mia casa rimane strabiliato dalla sua eleganza, dalla perfezione dei particolari, dall’arredamento sofisticato, da tutti questi oggetti preziosi la cui minuziosa ricerca ha solcato la mia solitudine.

Non ho specchi qua dentro, per scelta ponderata. Soltanto quello in bagno tramite il quale mi rifletto fino al seno, il mio enorme e ingestibile seno. A causa sua non riesco vedere le punte dei miei piedi: al loro posto due mammelle inopportune che mi hanno divorato la giovinezza con il loro volgare aspetto, con l’arroganza del loro esserci senza contegno alcuno. Un fardello che mi ha costretto a rintanarmi nel buco, allontanarmi dagli sguardi e riempirmi la pancia di grasso per mascherarlo meglio. Altra cazzata, il grasso c’è sempre stato. Adesso, che la giovinezza se n’è andata, sfumata tra i dolori e le perdite, rotolata tra le rughe del volto e frantumata contro le aspettative disattese, di me stessa non m’importa più granché. Sono una bugia che cammina su due piedi taglia 36, una che non si specchia oltre il proprio viso e poi si rifugia come una ricercata nelle boutique più costose della città per trovare orpelli in grado di nascondere un corpo abnorme, odiato e ripudiato, che mi ha reso arida e vecchia prima del tempo.

Sono antipatica. So di esserlo, ascolto la mia voce stridula che si insinua indesiderata tra i discorsi altrui, mi vedo accolta con fatica dai colleghi di lavoro che hanno il solo interesse di accaparrarsi la mia simpatia per ottenere una promozione. Scappo dalle relazioni vere per rintanarmi in quelle fittizie, dove si sorride con la bocca e mai con gli occhi, dove le parole sembrano fuggire da ogni emozione. Mi sono accontentata di una compagnia qualsiasi per il mio viaggio alle Maldive e per la settimana a New York dedicata agli acquisti natalizi. Scusa, chi sei? Ah, sì, ci siamo conosciute in palestra e ti è piaciuto il mio profumo; mi hai chiesto se era Dior o Dolce e Gabbana e ci avresti scommesso, è Dior. Così siamo diventate “amiche", per un profumo, perché anche tu hai soldi da buttar via e nessuno con cui o per il quale spenderli. Ci sputtaniamo i quattrini insieme e siamo amiche. Luciana, una quasi cinquantenne come me, con la bocca rifatta e la pelle del viso talmente tirata da brillare e donarle un aspetto insano e fittizio. Ci consoliamo a vicenda io e Luciana, ma se smettessi di dire bugie la prenderei a calci nel culo fino a farla rotolare fuori da casa mia. Su di lei non riesco a fare attaccare niente e quando sostiene che ci somigliamo tanto, sento le gambe ciondolare sotto il peso di una verità che non può essere tale.

Intanto Bianca mi ha raggiunta sul divano e si è spalmata sul mio ventre. L’accarezzo con sottile dolcezza. Vorrei che una sua zampetta facesse altrettanto con me, restituendomi un calore perduto. Quanto tempo è passato da quando una mano mi ha accarezzato il viso? Dopo mia madre e mio padre, non ho nessun ricordo. La mancanza di calore mi ha freddata, cementata in un vaso di rassegnazione. Ho lasciato crescere l’assenza e mi ci sono abituata: nessun barlume di speranza è venuto a salvarmi. La bella casa è diventata una prigione blasonata, un rifugio per inetti, un luogo dove le scarpe viaggiano da sole ticchettando sul parquet - maledetti tacchi a spillo che mi hanno ingobbita.

«Beata te, Serena, che hai tanto tempo da dedicare a te stessa», dicono le mie colleghe, accecate dall’insensibilità. A loro il cuore l'ha raggrinzito il tempo, a me il tempo lo ha rubato. «Chi vi ha detto di fare figli, scusa?»rispondo, la voce gelida e velenosa. Le vedo che si danno gomitate, che si rimpiattano nel loro angolino, preoccupate di aver perso punti importanti. Ed è così. Già le sopportavo poco prima, figuriamoci ora. Tempo libero! Cosa ne sanno loro del mio tempo? Cosa faccio delle mie ore, dei miei minuti, è affar mio. Come fanno a sapere se per me è gioia entrare in casa e districarmi nel silenzio, prenderlo spesso ad accettate fino a farmi male o se preferirei sentire urla di bambini che corrono nel corridoio e trovare giocattoli dappertutto sui quali inciampare e poi disordine, puzza di piedi sudati, tappeto con pongo appiccicato e divano usato come foglio da disegno. Ci penso e sorrido. Che bellezza, la confusione, il vuoto che non è più vuoto, smetterla di accanirsi per riempirlo ed impiegare le ore ad annusare l'aria di questa casa senza l’odore perfetto della vaniglia e del gelsomino. Ma in fondo, non mi interessa sul serio il fatto di non essere madre. Che poi io, madre, lo sarei stata in modo disastroso. Non tutte le donne possono esserlo, è un istinto primordiale che a volte manca e a me manca. Tuttavia, per quanto dolce possa essere il miagolio di Bianca, è così sottile che non ce la fa a stanare il silenzio.

Da domani mi metto a dieta - che grossa bugia - ma adesso mi alzo e vado al frigo. Vuoto. Deserto di luce e ghiaccio. Non mi preoccupo neppure di fare la spesa, tanto so che chiamerò il ragazzo delle pizze o il sushi a domicilio o qualche altro posto in grado di procurarmi del cibo già pronto. Vado in camera, apro la scarpiera e mi faccio travolgere dalle tinte sgargianti, dall'odore di pelle scamosciata, dai tacchi a spillo che sembrano guardarmi minacciosi. In effetti, la tentazione di prendere tutte queste scarpe e gettarle in un sacchetto nero ce l’ho avuta stasera, ma è passata. Io sono le mie scarpe numero 36, i miei soldi, la mia casa vuota. Mi sono sempre salvata così. Prendo il paio di stivaletti di pelle verde, li indosso. Ci cammino in su e in giù per la stanza e immagino come mi possano stare. Nella testa sono alta e slanciata. Fiera, mi infilo il paltò e mi preparo a uscire, di nuovo. Forse l'arroganza della mia città mi riporterà un po’ della mia salvifica competizione e qualche boutique mi accoglierà con carezze morbide e calde.

Ciao Bianca, esco.