Il lieto fine
Se penso al lieto fine la prima cosa che mi viene in mente è la letteratura per l’infanzia, ovvero fiabe e favole. Analizzando alcuni di questi racconti da un punto di vista diverso rispetto a quello a cui siamo sempre stati abituati, le cose assumono un aspetto decisamente diverso. Ecco alcuni esempi: Cenerentola ha il suo bel lieto fine perché viene salvata da una vita di miseria e soprusi da un bel principe; Biancaneve riconquista la sua vita grazie al bacio d’amore che rompe il sortilegio; Cappuccetto Rosso, poco incline ad ascoltare le raccomandazioni della madre, si addentra nel bosco e solo per merito di eroiche imprese del cacciatore, si salva. Eccoci dunque alla conclusione: tre personaggi femminili che trovano il loro lieto fine solo grazie al prode intervento da parte di un uomo. Questi sono gli epiloghi ai quali siamo abituate, la fallica visione del mondo in cui noi donne siamo cresciute, una realtà precostruita da una società maschilista che ci vuole assoggettate al potere dell’uomo.
Anche se oggi la condizione della donna sembra (e dico sembra) essere in gran parte migliorata, resta il fatto che sulle nostre spalle pesa un ingombrante retaggio che nel corso degli anni non ha fatto altro che mantenersi vivo e accumularsi nonostante l’emancipazione e la libertà conquistata. Anzi, a ben guardare le cose sono pure peggiorate perché oggi le donne che lavorano non hanno smesso di fare “le casalinghe”. Perciò, sulle loro spalle, oltre che un'ereditá culturale sbagliata che le colpevolizza se non sono brave mogli, brave domestiche e bravi madri, gravano anche impegni di lavoro sempre più pesanti. Quale donna torna da lavoro stanca e si butta sul divano ignorando la spesa da fare, la cena da preparare, i piatti da lavare?
Ma torniamo al punto di partenza, al lieto fine, per fare un gioco di parole. In letteratura, il lieto fine, è ed è stato sempre legato alla condizione della donna, come se anche quello fosse un passato di cui non potersi liberare. La produzione femminile è stata, specialmente tra il settecento e l’ottocento, dipendente dall’immagine della donna precostruita dall’uomo, immagine non viva soltanto negli altri, ma anche e purtroppo nella donna stessa. Le scrittrici si destreggiavano allora tra il desiderio di raccontare senza remore e la necessità di adattarsi a ciò che da una donna ci si aspettava (lieto fine compreso), necessità che ne limitavano la creatività e la possibilità di sperimentare e migliorare.
Jane Austen
I libri di Jane Austen, finiscono tutti con il matrimonio delle protagoniste, non perché la Austen scrivesse romanzi rosa, ma perché la società dell’epoca prevedeva che la donna si potesse realizzare soltanto accanto a un uomo. Se la Austen avesse avuto la libertà di scrivere il continuo dei suoi libri e raccontarci la vita post matrimonio e gli stati d’animo delle sue protagoniste, sarebbe stato un esperimento interessante…
Ai tempi di Jane Austen e fino alla fine dell’ottocento, scrivere e pubblicare un libro, era per una donna una vergogna, quantomeno qualcosa di sconveniente, tanto che la stessa Austen si firmava By Lady e le tre sorelle Brontë con pseudonimi maschili. Nel novecento le cose migliorarono di poco perché ancora, almeno nei primi decenni, le donne venivano educate alla sottomissione all’uomo (che fosse padre, fratello, marito) e veniva loro insegnato a occuparsi dei lavori e dei doveri domestici oltre che a non ambire a una professione o a un’indipendenza economica.
Virginia Woolf, che ha sempre mostrato la sua amarezza per non aver potuto ricevere un’istruzione come invece ricevettero i suoi fratelli, fu una grande sostenitrice dei diritti delle donne e nel 1929, in Una stanza tutta per sé scrive: “Una donna deve avere i soldi e una stanza tutta sua per scrivere romanzi”. Per lei quindi, l’emancipazione del genere femminile gettava le fondamenta nell’ indipendenza economica e nella libertà di pensiero. Sempre in Una stanza tutta per sé esprime la propria opinione sull’esistenza di una letteratura femminile sostenendo che esiste in effetti una differenza tra i libri scritti dagli uomini e i libri scritti dalle donne; le donne, da sempre contratte in un potere patriarcale, scrivono ora con rabbia e rancore mentre gli uomini, intenti a mantenere la supremazia di genere, scrivono per rimpinzare il proprio io. Secondo la Woolf quindi, scrittori e scrittrici dovrebbero semplicemente scrivere come se fossero androgini in modo tale che le loro caratteristiche potrebbero mischiarsi e nutrirsi le une delle altre.
Oggi, ci sono molte autrici e molti autori con la mente androgina, ma permangono ancora scrittrici che hanno le caratteristiche della scrittura femminile e scrittori che non mollano la scrittura maschile. Eppure, solo quella femminile sembra avere una connotazione negativa… Si sente dire molto spesso “sono libri da donne” e in genere ci si riferisce ai libri che hanno determinate caratteristiche come la storia d’amore, l’esaltazione dei sentimenti e il lieto fine, per l’appunto. Credo però che la differenza sostanziale che porta al pregiudizio prima che al giudizio, risieda nel genere di chi scrive: ci sono libri, scritti da uomini, che hanno le stesse caratteristiche di quella che è considerata la scrittura da donna, ma che non ricevono le stesse critiche o gli stessi pregiudizi.
Concludendo, non esiste affatto una letteratura femminile, come genere, ma piuttosto esiste come stile di scrittura che può caratterizzare sia un autore che un’autrice, così come può avvenire per quella letteratura maschile considerata troppo spesso esclusiva degli uomini.
Curiosità: il Test di Bechdel, che prende il nome dalla fumettista che nel 1985 lo ha generato, è un metodo empirico che valuta l’impatto di personaggi femminili nelle trame delle opere di finzione per capire se un libro è sessista oppure no. Per non essere sessista deve seguire i seguenti criteri:
devono esserci almeno due donne che
parlino tra di loro di qualsiasi argomento che
non riguardi un uomo.
Buon lieto fine a tutti.