Mandami tanta vita

Recensione

Due storie, due facce di una gioventù che non lascia spazio alla libertà di essere vissuta come meriterebbe. Questa la tematica principale di Mandami tanta vita, romanzo di Paolo Di Paolo, tra i candidati del premio strega del 2013.

L’autore prende spunto dalla vita di Piero Gobetti, noto editore e giornalista liberale ed antifascista degli anni venti, costretto all’esilio per continuare a perseguire i suoi progetti nella totale libertà fisica e morale.

La storia di Piero si alterna (e brevemente si intreccia) a quella di Moraldo, giovane studente di filosofia che stenta a concretizzare le proprie idee a causa della sua fragilità, conseguenza di vari fattori concomitanti, non per ultima la giovane età che lo rende facile preda di insicurezze esistenziali. Moraldo si lascia difatti trascinare dall’illusione di un presunto amore e si affligge per l’incapacità di fare “la cosa giusta”, come invece sembra riuscire a fare Piero, che Moraldo conosce per fama. Di esso ammira la forza, la determinazione, la fermezza morale e gli ideali categorici che sono il suo stendardo e che lo guidano verso quella che per Moraldo è una vita vera, piena, concreta. In realtà anche Piero nasconde le sue debolezze che si riflettono nel suo aspetto fisico, essendo un ragazzo esile e dalla carnagione diafana.

Piero e Moraldo, che sembrano condividere solo l’età anagrafica, si trovano invece ad avere in comune altro: nella vita di entrambi c’è una figura femminile che risulta ambivalente nel suo esserci. Piero soffre il distacco dalla giovane moglie Ada, lasciata in Italia con il figlioletto appena nato mentre lui è costretto a partire per Parigi. Tra Ada e Piero c’è un sentimento forte e Ada lo ama di un amore quasi materno e lui, piuttosto restio a lasciarsi andare ai sentimentalismi, lascia sfogo al suo amore in una sola frase, che dà il titolo al libro, mandami tanta vita, perché è questo che è per lui sua moglie, la fonte e il senso della sua esistenza. Dal canto suo, Moraldo si lascia ingenuamente travolgere da una passione appena sbocciata che il destino gli ha donato grazie ad uno scambio di valigie. La ragazza coinvolta si chiama Carlotta e rappresenta quel tipo di donna alquanto atipica per gli anni venti; è difatti una fotografa, anticonformista e sessualmente libera dai preconcetti dell’epoca. E’ bella e affascinante, con occhi scuri che atterriscono e allo stesso tempo incantano Moraldo, il quale si sente sopraffatto da lei, nonostante (o forse proprio per questo), lei sia sfuggente e distaccata. Con un desiderio incontrollabile di ritrovarla, la inseguirà fino a Parigi, spinto dal bisogno recondito di trovare quell’amore che possa riscattarlo da una condizione deprecabile nella quale sfugge a se stesso senza appiglio alcuno, dove non trova il senso del proprio vivere. Ma sarà proprio Parigi il luogo dove vedrà sfumare le sue possibilità, non solo sentimentali, ma anche professionali, non trovando il coraggio di cogliere l’occasione tanto bramata e che il destino gli offre su un piatto d’argento. Moraldo rimanda, ed è proprio questa sua inclinazione al rimandare che genera le sue più grandi insoddisfazioni.

Si concluderà così questo romanzo nostalgico e disincantato, che ci parla di una gioventù di tempi lontani, che tenta di sopravvivere alla vita, per la quale da una parte si combatte contro gli ostacoli esterni, dall’altra con quelli interni, più ambigui e più resistenti. Ci parla della voglia di riscatto, del valore degli ideali la cui preservazione alle volte travalica anche gli affetti, della ricerca di autostima e di autorealizzazione.

Il libro mi è piaciuto molto; l’unico appunto negativo che mi sento di palesare è l’artificio stilistico che Di Paolo usa nei dialoghi, che si presentano privi di punteggiatura, artificio che rende tutto più scorrevole, senza così distogliere l’attenzione del lettore dalla narrazione, la quale diventa però quasi un’esposizione privata tra i personaggi, imponendoci in tal modo l’inevitabile analisi psicologica di essi. Perché le parole in qualche modo, scandite in battute chiare e definite, ci aiutano ad osservare e comprendere i personaggi dall’esterno, quasi come se li vedessimo agire in un film, mentre il dialogo mischiato al resto toglie quelle sfumature che ce li rendono più immediati. Ci costringe all’introspezione. Anche se comprendo quindi il fine dell’utilizzo di tale artificio stilistico, devo ammettere che in me ha generato qualche difficoltà di lettura anche perché spesso non capivo immediatamente chi fosse a dire cosa. Detto questo, il libro resta sicuramente meritevole di lettura, perché ci trasporta in un’epoca ormai lontana e quasi sconosciuta ai sopravvissuti, ci erudisce sulla vita breve ma intensa di Piero Gobetti e ci fa riflettere molto sull’importanza che per ognuno di noi ha il cercare e trovare il senso della propria esistenza.