Volare con i piedi a terra
Raccontare è un bisogno primordiale del genere umano e l’uomo, da sempre, ha cercato di soddisfare questa necessità sfruttando ogni mezzo a sua disposizione. Si narrava oralmente quando ancora non esisteva la scrittura; si disegnava sulle pareti delle caverne o sui muri delle piramidi fino ad arrivare all’uso della carta e del linguaggio scritto.
Con la scoperta del fuoco nacque l’abitudine di radunarsi attorno ad esso per raccontare e raccontarsi, creando così l’inizio di uno sviluppo etico e sociale e un progredire intellettuale destinato a evolversi nel tempo. L’uomo imparò così a sentirsi parte di una comunità nella quale perdeva la sua individualità e acquisiva la delizia del condividere e del confrontarsi con gli altri.
La tendenza a narrare storie intorno al focolare non si limitò al periodo preistorico, ma continuò a esistere anche negli anni successivi, fino ai giorni nostri. Mia nonna mi racconta che prima dell’avvento della televisione, le famiglie si radunavano nelle ore serali per trasmettersi esperienze di vita e dialogare su argomenti che ben differivano da quelli quotidiani.
Perché?
La risposta è semplice: siamo animali sociali e come tali sentiamo l’esigenza di far parte di qualcosa.
L’uomo non ha mai smesso di raccontare. Né di ascoltare. Ha cambiato i mezzi e gli strumenti per farlo e spesso anche le finalità, ma quel bisogno ancestrale è radicato nel nostro DNA. Avvertendo io stessa questa eredità cromosomica come un allarme che mi ricorda costantemente di soddisfarla, scrivo. Ma come raccontare? Quale è il modo giusto? Quali le regole? Nessun manuale ritengo più esaustivo di Lezioni Americane di Italo Calvino. Prima di scrivere il mio primo libro, non capivo esattamente cosa volesse dire Calvino sostenendo che “la leggerezza è un valore e non è un difetto.”
Ho sempre associato il termine leggerezza a qualcosa di negativo e cercando sul vocabolario la definizione è la seguente:
1.limitatezza di peso;
2.mancanza di controllo nel comportamento, indice di scarsa serietà e di frivola noncuranza.
Cosa può esserci quindi di positivo o erudito in qualcosa che non ha peso?
Cosa può esserci di ammirevole in ciò che possiede poca serietà, è frivolo e disinteressato?
Quale immagine metaforica si figura nella nostra mente?
La leggerezza, vista in quest’ottica, ho perciò sempre tentato di rifuggirla, come il peggiore dei mali. Il mio più grande timore, da scrittrice, è stato quello di creare qualcosa di “leggero” che non rispecchiasse la profondità di ciò che volevo trasmettere. Vedevo un limite nella semplicità del mio linguaggio, nelle immagini metaforiche che, incontrollate, scaturivano dalla mia mente. Ma Calvino afferma che la leggerezza è un valore positivo purchè porti con sé sempre la sua gravità. Una dicotomia bella e buona! Una dualità che da principio mi ha spiazzata. Come si può mantenere la lievità conservando il peso e da esso non essere deformati mentre scriviamo? Essere coscienti del peso insito nel nostro raccontare, nello stesso tempo spiccare il volo sopra il mondo, guardarlo dall’alto e tenere i piedi saldi a terra, allontanandosi dalla superficialità.
Pare difficile e complicato. E indubbiamente lo è. Come poter separare la leggerezza dalla superficialità quando abbiamo sempre sostenuto che l’una fosse la conseguenza dell’altra? Calvino consiglia di non scrivere ciò che è poco pensato, scarno di dettagli, costruito sulla casualità, sulla indeterminazione e sull’imprecisione per evitare appunto che risulti qualcosa di frivolo, privo di gravità. La riflessione a cui mi ha portato la lettura delle lezioni di Calvino, ha sconvolto i miei concetti mentali e ha aperto una nuova visuale, eccezionale e opposta a quella sempre avuta sulla leggerezza.
La dicotomia che la caratterizza la rende ai miei occhi e alla mia mente qualcosa di straordinariamente affascinante perché affascinante è la contrapposizione tra il significato spicciolo della parola che porta alla mente immagini scollegate dalla profondità a cui invece, come valore, è legata e la gravità che le fa da contrappeso. Che mondo sarebbe se riuscissimo ad essere leggeri nel pensiero senza essere frivoli, se riuscissimo ad elevarci sopra le nuvole rimanendo ancorati a terra, se potessimo esprimerci abbandonando la vaghezza e l’approssimazione?
Potremmo dire che saremmo tutti sopraffatti da una “leggerezza pensosa” opposta alla “leggerezza della frivolezza”, che, al cospetto dell’altra, appare pesante e opaca. Il mondo in cui l’uomo vive è un mondo ricco di indigeribilità, pigrizia e inespressività e Calvino vuole spronare gli scrittori a non nutrirsi di questi difetti, ma ad esaltare la leggerezza che si esprime attraverso un linguaggio delicato, un’astrazione del ragionamento e l’uso generoso di immagini figurali che assumano valori simbolici. Mi sono allora chiesta quali potessero essere le caratteristiche di un linguaggio leggero. Prima di tutto ho pensato che si dovrebbero eliminare tutte le parole settoriali e ricercate, o per essere più chiara le parole riempitive, che come dice il termine stesso, hanno il solo scopo di “riempire” e di conseguenza il difetto di appesantire il testo.
Si dovrebbe invece ricorrere all’uso delle parole realmente funzionali, quelle che hanno uno scopo ben preciso e rifuggono la casualità. Ci sono tanti scrittori che fanno un uso improprio delle parole, che le adoperano come piume d’oca per riempire un cuscino per renderlo più morbido. L’effetto che invece ottengono è proprio il contrario: un ammasso di parole infilate a caso, pesante come macigno.
Per fortuna ce ne sono tanti altri che riescono a raccontare storie di grande complessità con una leggerezza straordinaria; posso certamente porvi l’esempio di Murakami che nel suo Norwegian Wood, mi ha incantata per questa sua estrema capacità di raccontare con “leggerezza pensosa” gli eventi tragici della vita. Non ho particolarmente amato questo suo romanzo, a dispetto di milioni di persone in tutto il mondo, ma ho ammirato profondamente la sua attitudine. Sì, posso certamente dire che Murakami è dotato di “leggerezza pensosa”.
Come si impara? Forse un po' si impara, forse è una qualità innata.
Certo, fossero in vendita pastiglie di “leggerezza pensosa” probabilmente ne farei un uso indiscriminato!
E senza pastiglie magiche, cosa possiamo fare?
Certamente dobbiamo avere chiaro in mente che da demonizzare non è il peso, ma la pesantezza di ciò che vogliamo raccontare. Il fonema è simile ma il significato profondamente diverso. Calvino cita Valerì: “Devi essere leggero come l’uccello e non come la piuma.” Il volo perciò non dipende dal peso del corpo, ma dalla pesantezza che gli attribuiamo. Dovremmo essere così bravi da eliminare la pesantezza del nostro narrare e in questo può soccorrerci la scienza. Ci avreste mai pensato? La scienza che soccorre la letteratura. La conoscenza della realtà delle cose, lo studio dei dettagli, ha la capacità di annullare ogni briciola di approssimazione. La frivolezza cede il posto alla pensosità. A tal proposito Calvino ci fa un esempio di una bellezza straordinaria, citando Leopardi. Il poeta tenta di giungere alla leggerezza facendola diventare l’oggetto della sua infinita ricerca. Con essa Leopardi tenta di annientare la pesantezza del vivere che è il fulcro costante delle sue opere. Gli studi che aveva compiuto sulla luna gli permisero di trasudare tramite la scrittura la leggerezza in tutto il suo splendore, fino a riuscire ad usare le parole come se fossero loro stesse luce lunare capaci di alleggerire le pene della vita.
La letteratura, lo scrivere, il raccontare diventano perciò il connubio tra la pesantezza della realtà e il desiderio di elevazione.
Tutte queste riflessioni mi hanno sfamato la mente perché hanno dato un significato a questa dualità che permea l’esistenza e di conseguenza ne condiziona il modo di raccontarla. Se la “leggerezza pensosa” fosse una qualità congenita in ognuno di noi, la parte frivola di essa risulterebbe così pesante da non spaventare nessuno. Si creerebbe un equilibrio meno precario; allora, come Calvino spoglia la tristezza e alleggerendola la trasforma in melanconia (definizione meravigliosa di tale sentimento), allora forse la presunzione priva di pesantezza diventerebbe semplice trasmissione di conoscenza, la solitudine assomiglierebbe ad una silenziosa rigenerazione e l’invidia non sarebbe altro che una riconosciuta qualità nell’altro diverso da sé.